VITTIMOLOGIA E VICTIM SUPPORT

"Non esistevo. Ero un fantasma, Vagavo nel vuoto, La gente si voltava dall'altra parte; come se non ci fossi. Osservava per un momento le ferite e poi basta, uno sguardo al di là della mia spalla e via. Non c'era niente da vedere [...] La donna che non c'era. la donna che non aveva niente che non andava. La donna che era a posto, La donna che sbatteva nelle porte. [...]

- "Come stai?"  

- "Benissimo".

Chiedetemelo.

All'ospedale.

Chiedetemelo.

Al centro sanitario. In chiesa.

Chiedetemelo, chiedetemelo, chiedetemelo, Naso rotto, denti che ballano, costole incrinate. Chiedetemelo." (R. Doyle, "La donna che sbatteva nelle porte")

Vittimologia: storia e definizioni

La vittimologia è una disciplina molto recente, nata a seguito dei primi studi sviluppatisi in America dalla metà del XX secolo a partire dalle opere di Wertham, Mendelshon, Von Hentig e Wolfgang.

Se infatti fino alla metà del secolo scorso la vittima rimaneva confinata in una posizione marginale, come semplice soggetto passivo del reato, mentre l’interesse principale era per il reo e per l'indagine sul crimine, in seguito si iniziò ad interrogarsi sul ruolo svolto dalla vittima, e anche sui possibili fattori predisponenti alla vittimizzazione, al fine di valutare la possibilità di agire sulla prevenzione.

Progressivamente la disciplina ha così “restituito dignità alle vittime e ne ha delineato i tratti, accompagnandole in un percorso, quello del riconoscimento dei diritti, che, nonostante i passi in avanti compiuti, è ancora lungo e difficile” (Sicurella, 2012).

Secondo la definizione di Wertham (1949) la vittimologia è una “disciplina che ha per oggetto lo studio della vittima del crimine, della sua personalità, delle sue caratteristiche biologiche psicologiche, morali, sociali, culturali, delle sue relazioni con il criminale, del ruolo che ha assunto nella genesi del crimine” (F. Wertham; cit. in Giusio, Quattrocolo, 2014). Egli sosteneva che non fosse possibile comprendere la psicologia del delinquente se prima non ci si occupava di comprendere la sociologia della vittima.

Von Hentig formulò alcuni concetti chiave: la condizione di criminale-vittima (che non è predeterminata, ma è determinata dalla particolare situazione e dal precipitarsi degli eventi, come nel caso del gioielliere che da vittima, difendendosi e colpendo il ladro, diventa "aggressore" (pur con le attenuanti riconosciute da precise norme giuridiche); la definizione di vittima latente (per cui esistono alcune tipologie di persone, quali anziani, bambini, donne, disabili ecc., che per le loro caratteristiche sono maggiormente esposte al rischio di diventare vittime); e il rapporto criminale e vittima.

Wolfang, sulla scia delle riflessioni di Von Hentig, svolse ricerche sul campo su un ampio numero di crimini, formulando il concetto di “victim precipitation”, cioè del ruolo della vittima nella dinamica del crimine e nel far precipitare il fatto criminoso.

Mendelshon, approfondì il concetto di precipitazione sviluppato da Von Hentig, ai fini dell’indagine della criminodinamica del reato. Tutto ciò, come sottolinea M. Giusio, “non per colpevolizzare la vittima, ma proprio per comprendere meglio il reato e l’autore, studiando più a fondo la relazione interpersonale tra reo e vittima di reato, le “circostanze dell’incontro” tra i due soggetti di quel fenomeno di interazione sociale complesso che è il delitto” (Giusio, Quattrocolo, 2014).

In seguito vari autori approfondirono lo studio dei fattori predisponenti alla vittimizzazione, tra i quali Fattah (1971), che sostenne che le possibilità di vittimizzazione non sono equamente distribuite tra le persone, ma dipendono da tre classi principali di fattori predisponenti: i fattori biofisiologici (che riguardano lo stato fisico, quali handicap, disturbi e disabilità, ma anche età, razza, sesso), i fattori sociali (che riguardano condizioni professionali, personali e stili di vita che possono esporre a rischi di vittimizzazione), e i fattori psicologici (che riguardano il carattere, la presenza di psicopatologia, la credulità, l’imprudenza, ecc.).

È importante ribadire che lo studio dei fattori di predisposizione alla vittimizzazione non mira a fornire una qualche forma di giustificazione al crimine stesso, ma mira ad individuare e studiare la dinamica del crimine, con finalità soprattutto di prevenzione, ma anche di riparazione, prendendo in considerazione i danni subiti dalla vittima.

Da questi studi pionieristici la disciplina si è raffinata e diffusa anche negli altri continenti, arrivando in Italia inizialmente con gli studi di Ferro e Garofalo e trovando a partire dagli anni ‘70 in Gulotta un esponente di rilievo di quest'area di studio. Secondo Gulotta la vittimologia è “una disciplina che ha per oggetto lo studio della vittima di un crimine, delle sue caratteristiche biologiche, psicologiche, morali, sociali e culturali, delle sue relazioni con il criminale e del ruolo che ha assunto nella genesi del crimine” (Gulotta, 1976). Egli evidenzia il duplice ruolo della vittimologia, che deve avere una funzione sia preventiva, favorendo una riduzione del numero delle vittime e delle occasioni di vittimizzazione, sia riparativa, favorendo una riduzione degli effetti a breve termine sulla vittima e consentendo un adeguato recupero.


Lo sviluppo della “extended version of victimology”

La vittimologia, che ai suoi esordi si occupava solo dei crimini con rilevanza penale, ha iniziato a partire dagli anni ’60-’70 ad estendere il suo oggetto di studio anche ai vari eventi lesivi extrapenali.

Mendelshon già nel 1969 indirizzò il suo interesse verso una vittimologia allargata o, come la definì, una “extended version of victimology”, affermando bisognasse occuparsi anche delle vittime di se stesse (es. per autolesionismo, psicopatologia, tentativi di suicidio, ecc.), delle vittime dell’ambiente sociale (es. vittime di abusi, discriminazioni, ecc.), delle vittime dell’ambiente tecnologico (es. vittime dell’inquinamento, di incidenti sul lavoro, ecc.), delle vittime dell’ambiente naturale (es. vittime delle alluvioni, dei terremoti, delle calamità naturali).

L'ambito di interesse della vittimologia si è così progressivamente allargato, rivolgendosi non più solo a le vittime di reati, ma anche alle persone vittime di fatti non strettamente "penali", fatti che tuttavia producono un pregiudizio fisico o psicologico sulla vittima.


La vittima: danni e possibilità di intervento

Un evento lesivo determina nella vittima una serie di conseguenze che possono coinvolgere sia il piano fisico che psicologico, relazionale, o le condizioni di vita in generale.

Per quanto riguarda gli aspetti psicologici e relazionali, è necessario sottolineare che ogni persona vittima di un evento lesivo può rispondere in modo diverso, in quanto sulla risposta che la vittima fornisce agiscono numerose variabili, tra le quali le differenti risorse psichiche di cui dispone, la peculiare struttura di personalità, il sistema più o meno supportivo di relazioni in cui si trova inserita.

In ogni caso comunque la vittima si troverà a subire delle conseguenze, si vedrà inserita in un processo di vittimizzazione che non aveva precedentemente messo in conto di dover percorrere nella sua vita, sperimentando sentimenti nuovi e spesso a lei sconosciuti, sensazioni di disorientamento, confusione, paura, che potrebbero rendere necessario il ricorso ad un intervento di victim support e di psicoterapia al fine di recuperare più agevolmente una stabilità e per poter riprendere quel percorso di vita che l’evento vittimizzante ha interrotto in modo brutale.

L’evento vittimizzante può andare a colpire varie aree. Viene sicuramente colpita l’area della sicurezza, che viene infranta dall’evento stesso, facendo sentire la vittima non più sicura nel mondo. Il mondo diventa minaccioso, e la spinge a rinchiudersi in sé, con un blocco emotivo colorato di paura e spaesamento che a volte rende difficile anche chiedere aiuto.

L’area dell’autostima subisce una ferita importante: la vittima può provare paradossalmente un forte senso di vergogna per quanto subito, può provare umiliazione e a volte senso di impresentabilità sociale. Paradossalmente, pur essendo vittima, possono attivarsi dei vissuti di colpa (in parte dovuti anche ad aspetti culturali legati a stereotipi sulla vittima, in parte anche per un tentativo inconscio di ristabilire una forma estrema di controllo ritenendosene in parte responsabile, e cercando di dare un senso, una spiegazione, a ciò che un senso non sembra averlo).

Gli eventi lesivi, soprattutto se gravi o di lunga durata, possono andare ad agire sul , portando anche a vissuti di depersonalizzazione (non sentirsi più in contatto con Sé, sentirsi staccati da sé, come fuori dal tempo) o di derealizzazione (con sensazioni di irrealtà, vedendosi nel mondo “come in un film”).

I danni conseguenti al fatto lesivo possono essere primari se riguardano ferite, lesioni fisiche, danni psicologici, perdite economiche, legati direttamente all’evento, oppure secondari se derivano dagli effetti negativi che la risposta sociale ha sulla vittima, e possono essere determinati sia dalla risposta sociale formale (da apparato giudiziario e forze di polizia) che dalla risposta sociale informale (da amici, parenti, conoscenti) che non riesce a sostenere la vittima e ad accoglierla, ma anzi la traumatizza ulteriormente. Purtroppo spesso si assiste ad una vittimizzazione secondaria, presente soprattutto in alcuni tipi di reati come la violenza sessuale, nei quali la vittima è costretta a subire proprio dalle agenzie che dovrebbero tutelarla una serie di indagini, interrogatori, che spesso vengono gestiti senza le dovute cautele, e a volte anche pesantemente condizionati da stereotipi presenti nel contesto sociale, con conseguenze che si vanno a sommare a quelle determinate dal rivivere e risperimentare nuovamente nel racconto quanto accaduto. Sul piano psicologico l’effetto sulla vittima può essere devastante, ma ultimamente si sta assistendo ad una crescente consapevolezza dei rischi a ciò connessi, e a una conseguente maggiore attenzione alla necessità di offrire una adeguata formazione agli operatori che a vario titolo entrano in contatto con le vittime (necessità ribadita anche dalle direttive europee, e progressivamente recepita anche a livello nazionale).


Il supporto psicologico alla vittima - Victim support

I danni che un evento lesivo provoca sulla vittima rendono chiaramente evidente come sia necessario un intervento di supporto per aiutarla ad uscire da vissuti di paura, disorientamento, colpevolizzazione, depersonalizzazione, derealizzazione, ecc, che sperimenta subito dopo l'evento.

I vissuti sono complessi, e la risposta e la possibilità di superare ed elaborare il trauma dipenderanno da una serie di variabili intervenienti (risorse personali, struttura di personalità, rete sociale e familiare; nonché riverberi sul piano psichico dei fattori di realtà legati al fatto lesivo in sé, all’eventuale decorso del processo (nel caso dei reati, come ad esempio nella violenza), o al decorso dei vari iter legati al fatto lesivo (es. l'iter di assegnazione ad una rete di assistenza abitativa nel caso di vittime di disastri naturali, terremoti, ecc.).

Proprio la complessità del quadro rende indispensabile il ricorso a professionisti accuratamente preparati sul tema, che si possano occupare non solo della vittima ma spesso anche dei familiari che indirettamente partecipano dell’evento e della sofferenza del loro congiunto e che di conseguenza subiscono anch'essi dei danni psicologici.

Spesso tuttavia si assiste al diffondersi di un equivoco di fondo, in base al quale la vittima “non è malata e quindi non deve andare dallo psicoterapeuta: è semplicemente vittima di aggressioni da parte di altri”. Per quanto sia assolutamente condivisibile il pensiero che la vittima non abbia necessariamente una psicopatologia preesistente, ma sia una persona sana, purtroppo vittima degli eventi, è tuttavia necessario ribadire che le ripercussioni dell’evento traumatico sul Sé, sull’identità, sul mondo relazionale della vittima, sul mondo interno, possono essere assolutamente devastanti, anche quando non sfociano in una patologia. 

Negare alla vittima questa percezione di sofferenza e disorientamento sarebbe come sottoporla ad un’ulteriore violenza. 

Sarebbe opportuno invece aiutarla a rivolgersi a chi possa prendersi cura della sua sofferenza in modo competente e completo, con una formazione adeguata in psicologia e psicoterapia per poter valutare opportunamente da un punto di vista clinico le risorse disponibili e le aree di sofferenza. Interventi di altro tipo (quali ad esempio il counseling o la mediazione, se svolti da persone prive di una formazione completa in psicologia e psicoterapia) oltre ad essere vietate in base alle direttive internazionali, recepite anche dall'Italia (es. Convenzione di Istanbul) rischiano di attivare delle aree di sofferenza che poi non riescono ad essere gestite opportunamente per carenza di formazione adeguata dell' "operatore". Sarebbe un po’ come se una persona con il braccio rotto decidesse di andare dal farmacista invece che dal medico ortopedico affermando: “non soffro di osteoporosi o di altra patologia delle ossa, quindi non mi serve il medico: sono solo caduto dalla bici e voglio un farmaco per togliermi il dolore del braccio rotto!”. Se anche possiamo ammettere che non ci sia una patologia preesistente, in ogni caso l’evento traumatico ha provocato degli esiti di tipo clinico (siano essi il braccio rotto della "vittima della bici", oppure i vissuti di derealizzazione e disorientamento, depressione, ansia della vittima di violenza) che vanno presi in carico da persone appositamente formate nel settore di competenza più utile alla salute della vittima.

Il più delle volte tuttavia ci si confronta con situazioni di emergenza, in cui vari operatori (ad esempio l’infermiera del pronto soccorso, o i soccorritori del terremoto, o i soccorritori al tragico evento di piazza) entrano in contratto con la vittima subito dopo il fatto. In questo caso alcune competenze di ascolto della vittima e di victim support devono necessariamente essere fornite dalle strutture ai diversi tipi di operatori che entrano in contatto con le vittime (e attualmente in molte realtà c’è una buona formazione e una concreta attenzione a questi aspetti), al fine di garantire un primo approccio empatico, rispettoso, accogliente e supportivo; ma non si può pensare che questo sia sufficiente o che da qui il supporto psicologico o di "ascolto" possa essere delegato all’infermiera invece di rivolgersi ad uno specialista, psicologo o psicoterapeuta.

Il rispetto per la vittima e per la sua sofferenza ci impone di offrirle la risposta di cui ha bisogno, senza scorciatoie.



BIBLIOGRAFIA

  • Doyle R. (2005), "La donna che sbatteva nelle porte", Guanda ed., Milano.
  • Giusio M., Quattrocolo A. (2014), “Elementi di vittimologia e di victim support”, Giuseppe Vozza Editore, Caserta.
  • Gulotta G. (1976), “La vittima”, Giuffré, Milano.
  • Sicurella S. (2012), “Lo studio della vittimologia per capire il ruolo della vittima”, in “Rivista di Criminologia, vittimologia e Sicurezza”, Vol. VI – n. 3, Settembre-dicembre 2012.