Dott.ssa Erika Debelli 

Psicologa Psicoterapeuta


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INTERVENTI

Vittimologia e victim support 

Vittimologia e Victim Support

 

"Non esistevo. Ero un fantasma. Vagavo nel vuoto, La gente si voltava dall'altra parte; come se non ci fossi. Osservava per un momento le ferite e poi basta, uno sguardo al di là della mia spalla e via. Non c'era niente da vedere [...] La donna che non c'era. la donna che non aveva niente che non andava. La donna che era a posto, La donna che sbatteva nelle porte. [...]

- "Come stai?"  

- "Benissimo".

Chiedetemelo.

All'ospedale.

Chiedetemelo.

Al centro sanitario. In chiesa.

Chiedetemelo, chiedetemelo, chiedetemelo, Naso rotto, denti che ballano, costole incrinate. Chiedetemelo." 

(R. Doyle, "La donna che sbatteva nelle porte")

Vittimologia: storia e definizioni

La vittimologia è una disciplina relativamente recente, nata a seguito dei primi studi sviluppatisi in America dalla metà del XX secolo a partire dai lavori di Wertham, Mendelshon, Von Hentig e Wolfgang. 

Se infatti fino alla metà del secolo scorso la vittima rimaneva confinata in una posizione marginale, come semplice soggetto passivo del reato, mentre l'interesse principale era per il reo e per l'indagine sul crimine, in seguito si iniziò ad interrogarsi sul ruolo della vittima, e anche sui possibili fattori predisponenti alla vittimizzazione, al fine naturalmente non di trovare una presunta “responsabilità” o colpa, ma al fine di valutare la possibilità di agire sulla prevenzione.

La disciplina ha in tal modo progressivamente “restituito dignità alle vittime e ne ha delineato i tratti, accompagnandole in un percorso, quello del riconoscimento dei diritti, che, nonostante i passi in avanti compiuti, è ancora lungo e difficile” (Sicurella, 2012). 

Secondo la definizione di Werham (1949) la vittimologia è una “disciplina che ha per oggetto lo studio della vittima del crimine, della sua personalità, delle sue caratteristiche biologiche, psicologiche, morali, sociali, culturali, delle sue relazioni con il criminale, del ruolo che ha assunto nella genesi del crimine” (Whertam F., cit in Giusio, Quattrocolo, 2014). Egli sosteneva che non fosse possibile comprendere la psicologia del delinquente se prima non ci si occupava di comprendere la sociologia della vittima. 

 Von Hentig formulò alcuni concetti chiave: la condizione di criminale-vittima (che non è predeterminata, ma è determinata dalla particolare situazione e dal precipitare degli eventi, come nel caso del gioielliere che da vittima difendendosi e colpendo il ladro diventa “aggressore” (pur con le eventuali attenuanti riconosciute da precise norme giuridiche); la definizione di vittima latente (per cui esistono alcune tipologie di persone, quali anziani, bambini, donne, disabili, ecc. che per le loro caratteristiche sono maggiormente esposte al rischio di diventare vittime); e il rapporto tra criminale e vittima. 

Wolfang, sulla scia delle riflessioni di Von Hentig, svolse ricerche sul campo su un ampio numero di crimini, formulando il concetto di “victim precipitation”, cioè del ruolo della vittima nella dinamica del crimine e nel far precipitare il fatto criminoso. 

Mendelshon approfondì il concetto di precipitazione sviluppato da Von Hentig, ai fini dell'indagine della criminodinamica del reato. Tutto ciò, come sottolinea M. Giusio, “non per colpevolizzare la vittima, ma proprio per comprendere meglio il reato e l'autore, studiando più a fondo la relazione interpersonale tra reo e vittima di reato, le ”circostanze dell'incontro" tra i due soggetti di quel fenomeno di interazione sociale complesso che è il delitto" (Giusio, Quattrocolo, 2014). 

In seguito vari autori approfondirono lo studio dei fattori predisponenti alla vittimizzazione, tra i quali Fattah (1971), che sostenne che le possibilità di vittimizzazione non sono equamente distribuite tra le persone, ma dipendono da tra classi principali di fattori predisponenti: i fattori biofisiologici (che riguardano lo stato fisico, quali handicap, disturbi e disabilità, ma anche età, razza, sesso), i fattori sociali (che concernono condizioni professionali, personali e stili di vita che possono esporre a rischi di vittimizzazione), e i fattori psicologici (che attengono a carattere, presenza di psicopatologia, crudeltà, imprudenza, ecc.). 

È importante ribadire ancora che lo studio dei fattori di predisposizione alla vittimizzazione non mira a fornire una qualche forma di giustificazione al crimine stesso, ma mira ad individuare e studiare la dinamica del crimine, con finalità soprattutto di prevenzione, ma  anche di riparazione, prendendo in considerazione i danni subiti dalla vittima. 

Da questi studi pionieristici la disciplina si è raffinata e diffusa anche negli altri continenti, arrivando in Italia inizialmente con gli studi di Ferro e Garofalo e trovando a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso in Gulotta un esponente di rilievo di quest’area di studio. 

Secondo Gulotta la vittimologia è “una disciplina che ha per oggetto lo studio della vittima di un crimine, delle sue caratteristiche biologiche, psicologiche, morali, sociali e culturali, delle sue relazioni con il criminale e del ruolo che ha assunto nella genesi del crimine” (Gulotta, 1976). Egli evidenzia il duplice ruolo della vittimologia, che deve avere una funzione sia preventiva, favorendo una riduzione del numero delle vittime e delle occasioni di vittimizzazione, sia riparativa, favorendo una riduzione degli effetti a breve termine sulla vittima e consentendo un adeguato recupero.

 

Lo sviluppo della “extended version of victimology”    

La vittimologia, che ai suoi esordi si occupava solo dei crimini con rilevanza penale, ha iniziato a partire dagli anni ‘60-’70 del secolo scorso ad estendere il suo oggetto di studio anche ai vari eventi lesivi extrapenali

Mendelshon già nel 1969 indirizzò il suo interesse verso una vittimologia allargata o, come la definì, una “extended version of vitimology”, affermando bisognasse occuparsi anche delle vittime di se stesse (es. per autolesionismo, psicopatologia, tentativi di suicidio, ecc.), delle vittime dell'ambiente sociale (es. vittime di abusi, discriminazione, ecc.), delle vittime dell'ambiente tecnologico (es. vittime dell'inquinamento, di incidenti sul lavoro, ecc.), delle vittime dell'ambiente naturale (es. vittime di alluvioni, terremoti, calamità naturali). 

L'ambito di interesse della vittimologia si è così progressivamente allargato, rivolgendosi non più solo alle vittime di reati, ma anche alle persone vittime di fatti non strettamente “penali”, fatti che tuttavia producono un pregiudizio fisico o psicologico sulla vittima. 

 

La vittima: danni e possibilità di intervento

Un evento lesivo determina nella vittima una serie di conseguenze che possono coinvolgere sia il piano fisico che psicologico, relazionale, o le condizioni di vita in generale. 

Per quanto riguarda gli aspetti psicologici e relazionali, è necessario sottolineare che ogni persona vittima di un evento lesivo può rispondere in modo diverso, in quanto sulla risposta che la vittima fornisce agiscono numerose variabili, tra le quali le differenti risorse psichiche di cui dispone, la peculiare struttura di personalità, il sistema più o meno supportivo di relazioni in cui si trova inserita. 

In ogni caso comunque la vittima si troverà a subire delle conseguenze, si vedrà inserita in un processo di vittimizzazione che non aveva precedentemente messo in conto di dover percorrere nella sua vita, sperimentando sentimenti nuovi e spesso a lei sconosciuti, sensazioni di disorientamento, confusione, paura, che potrebbero rendere necessario il ricorso ad un intervento di victim support e di psicoterapia al fine di recuperare più agevolmente una stabilità e per poter riprendere quel percorso di vita che l'evento vittimizzante ha interrotto.

L'evento vittimizzante può andare a colpire varie aree. Viene sicuramente colpita l'area della sicurezza, che viene infranta facendo sentire la vittima non più sicura nel mondo. Il mondo diventa minaccioso, e la spinge a rinchiudersi in sé, con un blocco emotivo e uno spaesamento che a volte rendono difficile anche chiedere aiuto.

L'area dell'autostima subisce una ferita importante: la vittima può provare paradossalmente un forte senso di vergogna per quanto subito, può provare umiliazione e a volte senso di impresentabilità sociale. Paradossalmente, pur essendo vittima di un evento che non ha voluto, possono attivarsi dei vissuti di colpa (in parte dovuti ad aspetti culturali legati a stereotipi sulla vittima, in parte anche per un tentativo inconscio di ristabilire una forma estrema di controllo ritenendosene in parte responsabile, e cercando di dare un senso, una spiegazione, a ciò che un senso non sembra averlo).

Gli eventi lesivi, soprattutto se gravi o di lunga durata, possono andare ad agire sul Sé, portando anche a vissuti di depersonalizzazione (non sentirsi più in contatto con Sé, sentirsi staccati da sé, come fuori dal tempo) o di derealizzazione (con sensazioni di irrealtà, vedendosi nel mondo “come in un film”). 

I danni conseguenti al fatto lesivo possono essere primari se riguardano ferite, lesioni fisiche, danni psicologici, perdite economiche, legati direttamente all'evento, oppure secondari se derivano dagli effetti negativi che la risposta sociale ha sulla vittima, e possono essere determinati sia dalla risposta sociale formale (da appartato giudiziario e forze dell'ordine) che dalla risposta social informale (da amici, parenti, conoscenti) che non riesce a sostenere la vittima e ad accoglierla, ma anzi la traumatizza ulteriormente. Purtroppo spesso si assiste ad una vittimizzazione secondaria, presente soprattutto in alcuni tipi di reato come la violenza sessuale, nei quali la vittima è costretta a subire a volte proprio dalle agenzie che dovrebbero tutelarla ogni sorta di indagini e interrogatori spesso gestiti senza le opportune cautele e tutele, a volte anche pesantemente condizionati da stereotipi presenti nel contesto sociale, con conseguenze e danni che si vanno a somma quelle determinate dal rivivere e risperimentare nuovamente nel racconto reso quanto accaduto. La crescente consapevolezza degli effetti devastanti sulla vittima di questo tipo di vittimizzazione secondaria ha fortunatamente portato ad evoluzioni importanti e ultimamente si sta assistendo ad una crescente cura e attenzione alla necessità di promuovere una adeguata formazione agli operatori che a vario titolo entrano in contatto con le vittime (necessità ribadita anche dalle direttive europee e progressivamente recepita anche a livello nazionale).

 

Il supporto psicologico alla vittima: Victim Support

I danni che un evento lesivo provoca sulla vittima rendono chiaramente evidente come sia necessario un intervento di supporto per aiutarla ad uscire da vissuti di paura, disorientamento, colpevolizzazione, depersonalizzazione, derealizzazione, ecc. che sperimenta dopo l'evento. 

I vissuti sono complessi, e la risposta e la possibilità di superare ed elaborare il trauma dipenderanno da una serie di variabili intervenienti: risorse personali, struttura di personalità, rete sociale e familiare, nonché riverberi sul piano psichico dei fattori di realtà legati al fatto lesivo in sé, all'eventuale decorso del processo, o al decorso dei vari iter legati al fatto lesivo (quali ad esempio l'attivazione di una rete di assistenza pubblica, di assistenza abitativa, ecc.).

Proprio la complessità del quadro rende indispensabile il ricorso a professionisti accuratamente formati sul tema, che si possano occupare non solo della vittima ma spesso anche dei familiari che indirettamente partecipano all'evento e alla sofferenza del loro congiunto e che di conseguenza subiscono indirettamente danni psicologici.

Spesso tuttavia si assiste al diffondersi di un equivoco di fondo, in base al quale la vittima “non è malata e quindi non deve andare dallo psicoterapeuta: è semplicemente vittima di aggressioni da parte di altri". Per quanto sia assolutamente condivisibile il pensiero che la vittima non abbia necessariamente una psicopatologia preesistente, ma sia una persona sana, purtroppo vittima degli eventi, è tuttavia necessario ribadire che le ripercussioni dell'evento traumatico sul Sé, sull'identità, sul mondo relazionale della vittima, sul mondo interno, possono essere assolutamente devastanti, anche quando non sfociano in una patologia, e possono comunque condurre verso la strutturazione di una risposta di patologia. 

Negare alla vittima questa percezione di sofferenza e disorientamento sarebbe come sottoporla ad una ulteriore violenza.

Sarebbe opportuno invece aiutarla a rivolgersi a chi può prendersi cura della sua sofferenza in modo competente e completo, con una formazione adeguata in psicologia e psicoterapia, per poter valutare opportunamente da un punto di vista clinico le risorse disponibili insieme alle aree di sofferenza. Interventi di altro tipo (quali ad esempio il conuselling o la mediazione, se svolti da persone prive di una adeguata formazione e abilitazione in psicologia e psicoterapia) oltre ad essere in alcuni casi specifici vietati da alcune direttive internazionali recepite dall'Italia (come ad esempio nel caso della violenza di genere con la Convenzione di Istanbul), rischiano di attivare aree di sofferenza che poi non riescono ad essere opportunamente gestite dall' “operatore”. Sarebbe, per rendere l'idea, un po' come se una persona con il braccio rotto decidesse di andare dal farmacista invece che dal medico ortopedico affermando: “non soffro di osteoporosi o di altra patologia delle ossa, quindi non mi serve il medico; sono solo caduto dalla bici e ho rotto il braccio, basta l'antidolorifico dal farmacista”. Se anche possiamo ammettere che non ci sia una patologia preesistente, in ogni caso l'evento traumatico ha provocato esiti di tipo clinico (siano questi il braccio rotto della “vittima della bici”, oppure i vissuti di derealizzazione, ansia, PTSD, della vittima della violenza) che vanno presi in carico nel modo più competente e utile alla salute della persona. 

Il più delle volte tuttavia ci si confronta con situazioni di emergenza, in cui vari operatori (ad esempio l'infermiera del pronto soccorso, o i soccorritori del terremoto, o operatori del 118 al tragico evento di piazza) entrano in contatto con la vittima subito dopo il fatto. In questo caso alcune competenze di ascolto della vittima e di victim support dovrebbero essere necessariamente fornite dalle strutture agli operatori che incontrano vittime (e attualmente in molte realtà c'è una buona formazione, ma non in tutte), al fine di garantire un primo approccio empatico, rispettoso, accogliente e supportivo. Ma non si può pensare che questo sia sufficiente o che da qui il supporot psicologico o di “ascolto” possa essere delegato all'infermiera invece di rivolgersi ad uno specialista, psicologo o psicoterapeuta.

Il rispetto per la vittima e per la sua sofferenza ci impone di offrirle la risposta di cui ha bisogno, non scorciatoie.   

       

  

 

BIBLIOGRAFIA

  • Doyle R. (2005), "La donna che sbatteva nelle porte", Guanda ed., Milano.
  • Giusio M., Quattrocolo A. (2014), “Elementi di vittimologia e di victim support”, Giuseppe Vozza Editore, Caserta.
  • Gulotta G. (1976), “La vittima”, Giuffré, Milano.
  • Sicurella S. (2012), “Lo studio della vittimologia per capire il ruolo della vittima”, in “Rivista di Criminologia, vittimologia e Sicurezza”, Vol. VI – n. 3, Settembre-dicembre 2012.