“Se lo psicoterapeuta deve poter custodire il silenzio,
è perché attribuisce un valore assoluto alla parola del paziente.”
(J. Lacan)
Il colloquio può essere considerato uno tra i principali strumenti cui si fa riferimento nella psicologia e nella psicoterapia. Che si tratti di consulenza, di sostengo psicologico o di psicoterapia, al di là delle scelte teoriche, degli orientamenti, delle pratiche cliniche del singolo psicologo, è esperienza comune che dallo psicologo si vada “per parlare”.
Ma cosa rende diverso il colloquio con lo psicologo da quello con un amico, un familiare, un conoscente?
Potremmo, per semplificare, individuare quattro grandi classi di differenze:
1. I livelli di indagine: testo manifesto e testo latente
La prima differenza la scorgiamo nel livello di indagine del colloquio. O meglio: nel livello a cui tale colloquio viene “ascoltato”.
La competenza dello psicologo, la sua conoscenza delle dinamiche psichiche, della storia clinica di chi a lui si rivolge, l’attenzione alle dinamiche interpersonali e intrapersonali, l'ascolto delle dinamiche di transfert e di controtransfert che si attivano, gli consentono di non fermarsi al solo racconto narrato dal paziente, al solo testo manifesto, ma di andare oltre, avvicinandosi anche ad elementi non coscienti, non consapevoli, in modo da lavorare insieme al paziente sul testo latente, cioè su quanto quel racconto rappresenta e significa ad altri livelli, e da lì partire per dare il via ad una più ampia elaborazione e per aumentare progressivamente l’area del pensabile. Ed è quindi proprio questa capacità e possibilità di non rimanere al livello del testo manifesto ma di spostarsi e spostare l'indagine e l'ascolto ad un livello più profondo ciò che caratterizza il colloquio clinico.
2. Aree di indagine
Oltre ai diversi livelli di indagine, il colloquio psicologico consente di portare l'attenzione anche su diverse aree di indagine, che riguardano principalmente il funzionamento cognitivo (concernente aspetti quali l'attenzione, la memoria, le funzioni esecutive, la percezione, il processo decisionale, ecc.), il funzionamento emotivo (concernente aspetti quali la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni, la capacità di mantenere una buona regolazione emotiva, ecc.), il funzionamento relazionale (concernente qualità e dinamica della sfera relazionale dell'individuo).
Tutto ciò consente di vedere sia le aree di funzionamento che non presentano criticità o che rappresentano aree di forza della persona da sostenere e consolidare, sia di individuare eventuali pattern di funzionamento disfunzionale sui quali si può avviare un intervento più mirato.
3. I diversi canali comunicativi
Lo psicologo deve inoltre prestare attenzione ai diversi canali comunicativi attraverso i quali passa il dialogo terapeutico: la comunicazione non fluisce solo attraverso le parole (comunicazione verbale), ma anche attraverso il canale non verbale, quindi anche attraverso i silenzi, il tono della voce, la postura, la prossemica, e così via, e a volte anche attraverso gli agiti.
Come sosteneva Watzlawick: “è impossibile non comunicare”.
Per quanto il canale verbale sia il canale preferenziale, sarà compito dello psicologo prestare attenzione anche agli altri canali, ponendosi sempre in un assetto comunicativo e con uno stile comunicativo che sia adeguato a farsi capire e a comprendere l'altro.
Nella specifica relazione e nel campo bipersonale che si forma durante i colloqui, lo psicologo deve inoltre prestare attenzione anche all'aspetto relazionale e alla comunicazione che passa su questo piano, proprio in considerazione del fatto che nel campo bipersonale del colloquio vi sono due persone coinvolte, psicologo e paziente, ed entrambi partecipano attivamente alla costruzione del campo stesso.
La specifica competenza dello psicologo nel cogliere i diversi segnali comunicativi consente di aiutare il paziente anche ad integrare aspetti della propria comunicazione e dei propri vissuti di cui poteva non essere pienamente consapevole, aspetti che, pur non espressi a parole, vengono espressi attraverso i gesti, il canale non verbale, a volte anche il canale somatico, oppure attraverso altre modalità.
4. Finalità specifica del colloquio psicologico
Infine - ma elemento essenziale della sua specificità - il colloquio psicologico si distingue per il fatto di avere una chiara finalità: esso ha uno specifico obiettivo, che deve necessariamente essere definito e concordato con il paziente/cliente. L’obiettivo individuato caratterizzerà il tipo di intervento che verrà messo in atto e determinerà durata, profondità, e conduzione del o dei colloqui.
Ci potrà quindi essere il colloquio anamnestico, che ha l’obiettivo specifico di raccogliere i dati, la storia clinica, personale, evolutiva e famigliare del paziente; oppure il colloquio diagnostico, quando questo è orientato dall'obiettivo di raccogliere elementi per giungere ad una diagnosi, oppure il colloquio di sostegno psicologico, nel caso si stia attuando un percorso di supporto e sostegno; oppure il colloquio terapeutico nel caso questo miri all'elaborazione e cura di sofferenze, disagi o disturbi, inserendosi in un più profondo percorso di psicoterapia; oppure ancora colloqui caratterizzati da offerta di informazioni e chiarificazioni nella consulenza e nell’orientamento.
Il colloquio, pur rappresentando un elemento comune nella pratica psicologica, si differenzia in modo significativo in base all’utilizzo che il clinico ne fa, alla teoria che guida il clinico, a come egli lo inserisce all’interno di un determinato tipo di percorso (terapeutico, di consulenza, di sostegno, ecc.), e in base al piano di intervento che orienta il percorso stesso.

