DENTRO LE RELAZIONI VIOLENTE

“Se il gesto violento non riceve, da parte della vittima, una risposta immediata, decisa, drastica e mutativa, il “limite invalicabile” può essere valicato una seconda, una terza, una quarta volta e così via, senza più limite”.   

(S. Filippini, 2005)

Lasciare un partner violento non è semplice come potrebbe a prima vista sembrare a chi non ha familiarità con il fenomeno.

Che la violenza contro le donne sia molto diffusa è un dato ormai assodato. Le ricerche (ISTAT, 2014) affermano che circa una donna su tre ha subito qualche forma di violenza nella propria vita. Anche gli uomini naturalmente possono trovarsi quali vittime all’interno di relazioni violente, ma le percentuali sono decisamente inferiori (ma non per questo il fenomeno va sottovalutato).

L’immaginario collettivo per cui esiste un presunto “estraneo” che all’improvviso aggredisce una donna con cui prima non era mai entrato in contatto è stato smentito dai dati statistici: purtroppo la violenza il più delle volte si annida tra familiari o prossimi congiunti: coniuge, ex fidanzato, parenti, amici, ecc. (Istat, 2014). Molto spesso infatti le violenze si inseriscono all’interno di una relazione preesistente, già maltrattante su un piano psicologico, in cui spesso si attiva una dinamica relazionale che si struttura con particolari caratteristiche che rendono poi difficile uscirne. Ciò potrebbe apparire quasi incomprensibile a chi la osserva dall’esterno, e il più delle volte porta a chiedersi “…ma se la maltratta, perché non lo lascia?”. Il buonsenso e la logica ci spingerebbero a ritenere che nessuno voglia rimanere in una situazione di sofferenza. Ma nel caso di relazioni maltrattanti il buonsenso si perde, la realtà si confonde, la logica si altera, si perverte, perché si attua una progressiva perversione della relazione stessa (Filippini, 2005) che fa sì che si attivino delle dinamiche particolari.

Pur ricordando che ogni relazione va analizzata nelle sue peculiarità e non va inserita forzatamente in schemi a volte riduttivi, possiamo provare a evidenziarne alcune delle caratteristiche più comuni.

Gli elementi che determinano la permanenza della vittima in una relazione maltrattante possono essere riassunti a grandi linee con i seguenti aspetti:
 


 Il ciclo della violenza e lo spostamento del limite del possibile


Le relazioni maltrattanti in molti casi si sviluppano attraverso uno schema tipico che si articola in quattro fasi che si ripetono in modo ciclico:


 1. Luna di miele: la coppia si avvicina, vive un periodo di “innamoramento”, di reciprocità, di vicinanza in cui tutto sembra andare per il meglio, i precedenti dissapori o conflitti (che ciclicamente si riprsentano e preludono a questa fase) si dimenticano, come fossero ormai “acqua passata”, e i due si confermano a vicenda, confermandosi anche nella relazione "speciale" che condividono;

 2. Aumento della tensione: basta un piccolo evento, anche apparentemente insignificante, per innescare la tensione. Anche solo una semplice opinione diversa espressa dalla partner fa sì che il partner non trovi più la conferma al suo Sé fragile, deficitario, e senta di dover ripristinare il controllo della partner e della relazione, ad esempio agendo attraverso processi di svalutazione e comunicazioni confondenti. La partner, esposta a comunicazioni sempre più confusive, svalutanti, denigratorie, in cui il partner non esplicita mai nulla (es. “Tu dovresti saperlo…”) si trova smarrita in una realtà relazionale che non riesce più a comprendere. In questo modo egli destabilizza la vittima e ristabilisce il “controllo”, denigrandone le convinzioni e mettendo in dubbio le sue capacità di giudizio e di decisione. Mentre la vittima perde i suoi punti di riferimento all'interno di questa realtà confusiva, il partner trova una sua logica, che per lui ha una verità ineccepibile (es. “le donne sono tutte delle poco di buono…”) e non nota nulla di dissonante nella sua percezione della realtà. Secondo la Filippini (2005) ciò accade in quanto egli nega le proprie mancanze e le parti fragili del suo Sé (con cui non è in contatto) e le trasferisce sulla partner, per poi controllarle attraverso svalutazione e disumanizzazione, mentre nel contempo ne “vampirizza” gli aspetti vitali (non è raro infatti incontrare vittime che prima dell'evento erano persone vitali e forti).

 3. Violenza: ha luogo l’agito, la violenza vera e propria. Le parti fragili e precarie proiettate sulla partner sono disturbanti, vanno controllate, e l’agito violento serve proprio a ripristinare il controllo. Subito dopo l’agito violento l’aggressore ha una sensazione di tranquillità, che testimonia la riuscita distruzione dell’indipendenza psichica della donna, sulla quale ha ristabilito il controllo, e con esso ha ristabilito il controllo anche sulle parti del suo Sé che aveva proiettato in lei.

 4. Pentimento e scuse: dopo l’agito violento il partner ritorna dalla donna chiedendo scusa, dichiarandosi pentito. E può essere sinceramente pentito, perché egli ha realmente, accanto al lato di sé più violento e disfunzionale, anche un “lato buono”, più affettuoso e rispettoso della compagna. Il problema è che questi due aspetti sembrano non integrabili in lui: il “lato buono” e il “lato cattivo” si susseguono nel tempo, si esprimono a fasi alterne, prima uno e poi l’altro, e non riescono ad integrarsi e arricchirsi a vicenda per costruire una modalità di relazione più equilibrata, pur tra alti e bassi ma senza ricorso alla violenza fisica o psicologica. Ciò significa che, nonostante le scuse sincere, gli agiti violenti probabilmente si ripeteranno, perché i due “lati” non riescono ad essere integrati, rimangono scissi, e se non si interviene continueranno a ripresentarsi uno dopo l’altro, a fasi alterne.
Arrivati a questo punto inoltre si manifesta un altro problema: dopo la violenza si sancisce nella coppia uno spostamento del limite del possibile. Se fino alla violenza il codice comportamentale implicito della coppia consentiva alcuni tipi di comportamenti e non altri, dopo la violenza il permanere nella coppia fa sì che anche questa violenza rientri nell’ “ammissibile” all’interno della relazione: significa che d’ora in poi l’insieme di quanto tacitamente e consensualmente consentito all’interno della coppia comprenderà anche la possibilità che un partner faccia violenza sull’altro. E così, se la vittima non riesce a dare subito una risposta che porti ad un cambiamento, c’è il rischio che il limite venga superato ripetutamente, senza più limiti (Filippini, 2005). E il ciclo della violenza può così ricominciare daccapo, con una nuova fase di luna di miele, un successivo aumento della tensione e un agito violento che potrebbe essere ora più estremo (essendosi spostato il limite del possibile), per poi passare ad una fase di pentimento, e poi purtroppo ricominciare con un nuovo ciclo se non si riesce ad intervenire per interrompere lo schema. Ed è anche per questo motivo, per ili meccanismo che porta allo spostamento del limite del possibile, che ogni segnalazione, ogni denuncia, ogni comunicazione di una vittima non andrebbe sottovalutata, perché probabilmente quella successiva potrebbe raccontare di un agito violento sempre più grave.

Il contesto sociale e culturale in cui la violenza si esprime. 


La violenza sulle donne può essere considerata in parte determinata e sostenuta culturalmente, in quanto all'uomo vengono generalmente riconosciute quali caratteristiche socialmente accettabili quelle legate all’aggressività, alla forza, al dominio, mentre alla donna vengono implicitamente riconosciute come desiderabili altre caratteristiche, quali l’accoglienza, la docilità, la dipendenza. E se da un lato l’aggressività in senso lato può essere positiva se adeguatamente utilizzata in contesti di lavoro e sociali per uno sviluppo personale e professionale, dall’altro lato essa rischia, soprattutto in persone prive di strumenti personali e relazionali adeguati, di essere in altri frangenti una delle giustificazioni date alle diverse forme di violenza.

Si può inoltre ricordare come anche culturalmente e sul piano legislativo  la forza e il dominio dell’uomo siano stati sostenuti per lungo tempo: basti pensare che fino alla riforma del diritto di famiglia del 1978 esisteva la figura del “pater familiae” cui veniva riconosciuto anche lo "ius corrigendi", quindi la possibilità di "correggere" comportamenti ritenuti non adeguati della moglie o dei figli, anche attraverso l'uso della forza.  

Inoltre esistono ruoli di genere sostenuti culturalmente, che portano molte donne a trovare la propria identità solo nel ruolo di moglie o madre, quasi con una rinuncia a sè stesse spesso culturalmente sostenuta. La scelta di essere moglie e madre è di per sé positiva, ma può diventare rischiosa nel momento in cui rappresenta non una "espressione del sè" anche in questi ruoli, quanto piuttosto una "rinuncia" ad altre parti del Sè. Può accadere allora che la donna in una relazione maltrattante si trovi così a dover rinunciare ad esempio al lavoro, alle amicizie, a dover fare di tutto per mantenere questa relazione ancora in piedi "nonostante tutto" (nonostante le violenze, nonostante le botte, nonostante la paura) perché sente di poter esprimere il suo ruolo solo all'interno della famiglia che ha così duramente costruito, o perchè in essa ha investito tutta se stessa, e una volta separata dal marito rischia di trovarsi senza un’identità e un ruolo sociale, oltre a rischiare di sviluppare forti vissuti depressivi. L’uscita da una relazione maltrattante può inoltre essere ostacolata anche da un contesto sociale o familiare (es. famiglia d’origine, suoceri, ecc.) che la spinge a tenere in piedi la famiglia a qualunque costo, sulla base di stereotipi culturalmente determinati (es. tendenzialmente alla donna è demandato il compito di mantenere unita la famiglia, di essere “l’angelo del focolare”). Difficile quindi sviluppare un pensiero autonomo in un simile contesto culturale, tanto più che la vittima si trova già alle prese con un pensiero reso piuttosto confuso dai maltrattamenti e delle dinamiche relazionali in cui è inserita.

La perdita del senso di Sé e del senso di realtà.


Una vittima di violenza può trovarsi in una realtà estremamente traumatica e confondente, e pertanto smarrire i riferimenti abituali dell'esame di realtà, che si potrebbe alterare proprio quale conseguenza psicopatologica del trauma stesso.
Ciò le potrebbe impedire di vedere con chiarezza di chi sono le responsabilità dell’azione, ed è infatti frequente incontrare nella vittima forti sensi di colpa per quanto accaduto. In un certo senso, per quanto paradossale, prendersi anche inconsapevolmente la responsabilità del fatto consente di riportare ad una qualche logica una realtà che sembra non avere più un senso logico, una realtà in cui il partner confonde la vittima con comunicazioni confusive e svalutanti, facendole perdere il senso di Sé e della realtà.
Il tutto è aggravato dall’isolamento sociale nel quale la vittima è progressivamente spinta: tendenzialmente un partner maltrattante disapprova e limita i contatti sociali della partner, le “fa il vuoto intorno”, ed in tal modo ne mantiene un controllo e le impedisce di sviluppare una realtà condivisa con altre persone che possa fungere da paragone e da riferimento per la costruzione o la conferma del senso di Sé e della realtà.
Tutto questo insieme di cose porta la vittima progressivamente a dubitare di sé (anche perché se arrivasse a credere e accettare che la realtà è esattamente come le sembra di vederla ne rimarrebbe sconvolta e spaventata), e può allora iniziare a pensare che le sfugga qualcosa, che forse il partner ha ragione, perché lui “sa”; del resto la comunicazione confusiva che ha messo in atto con frasi del tipo “tu dovresti saperlo…” pur non spiegando nulla, lascia la partner nella convinzione di non aver capito, di non sapere, di aver sbagliato, di essere dalla parte del torto, mentre crede che lui sappia e capisca tutto quello che a lei sfugge. La perdita del senso di realtà può essere infine accentuata dai meccanismi di difesa di tipo dissociativo messi inconsciamente in atto dalla vittima per garantirsi una sorta di “sopravvivenza psichica”, spostando e quasi “distaccando” da sé quella parte dell’esperienza traumatica che risulta troppo terrificante per essere integrata nel proprio Sé. Ed infatti si possono incontrare spesso vittime che raccontano gli eventi con frasi del tipo “era come se non stesse accadendo a me”, o “era come se non fosse reale, come se non fossi lì”. La perdita del senso di Sé e del senso di realtà rendono ulteriormente difficile l’uscita dal contesto maltrattante, perché diventa quasi impossibile riconoscere e comprendere pienamente quanto sta accadendo, e quindi agire in un’ottica autotutelante. Ciò non significa che la vittima sia "malata", "pazza", incapace di capire la realtà: significa invece che una realtà così estrema e violenta, così traumatica lascia delle conseguenze, delle "lacerazioni", anche a livello psichico oltre che fisico. Ciò potrebbe addirittura far sembrare confusa e quasi poco credibile la testimonianza in caso di denuncia o processo. Per tale motivo è importante che ci sia una attenzione particolare agli aspetti psicologici dell’evento, anche quando ci si occupa di aspetti “pratici” quali una denuncia, altrimenti una vittima potrebbe rischiare di non riuscire a uscire da queste dinamiche.

Il sistema di attaccamento e le precedenti storie di vittimizzazione


Ci sono vari elementi che possono favorire la permanenza della vittima in un contesto maltrattante, e alcuni di questi risalgono alla sua storia evolutiva. Ognuno di noi ha imparato già dall’infanzia che in situazioni di stress, pericolo, difficoltà, può rivolgersi alle figure di attaccamento (i genitori, ma anche altri significativi quali nonni, ecc. nell’infanzia; e partner, familiari o altri significativi nell’età adulta). Se però la figura di attaccamento e quella dell’aggressore coincidono, si creano situazioni molto complesse, in cui proprio lo stress provocato dal maltrattamento attiva il sistema di attaccamento della vittima e la spinge a cercare un po’ di cura e protezione, e la porterebbe quindi ad avvicinarsi a chi l’ha sempre curata, che però ora coincide anche con chi l’ha maltrattata. Possono poi alternarsi le fasi di maltrattamento e di cura (perché le due parti nell’aggressore non riescono ad integrarsi), e rendere l’attaccamento sempre più disfunzionale, andando a sostenere il legame traumatico. In particolare se ci sono state precedenti storie di vittimizzazione, è possibile che sia stato appreso uno schema di attaccamento simile, spesso di tipo disorganizzato, che inoltre ha ripercussioni importanti anche su un corretto esame di realtà.


È importante infine ricordare che una donna non rimane in una relazione violenta o maltrattante “perché lo vuole” (che ci porterebbe ad utilizzare la stessa logica perversa e malata del maltrattante), o “perché è debole o psicologicamente deficitaria” (che ci porterebbe al rischio di far sentire la vittima colpevole per sue presunte caratteristiche intrinseche – mentre dobbiamo ricordare che chi subisce una violenza non è colpevole, è colpevole solo chi agisce la violenza, e che molto spesso i sintomi psicologici sono una conseguenza della violenza, e non un dato all’origine della stessa), o “perché ha una personalità dipendente” (che, oltre a non spiegare il fenomeno in sé, non consentirebbe di capire perché molte donne forti sono rimaste intrappolate in una relazione violenta; o non consentirebbe di capire che queste donne diventano dipendenti solo “nel rapporto con quel compagno, avendone subito giorno dopo giorno e senza comprenderla, l’azione subdolamente demolitrice”, Filippini, 2005). I motivi che la spingono a rimanere nella relazione maltrattante sono, come abbiamo visto, molto più complessi.

È quindi importante riconoscere tutti gli aspetti psicologici legati alla relazione violenta o maltrattante per poter agire non sulla base di stereotipi di ruoli o di genere, non sulla base di giustificazioni semplicistiche che spesso ci spingono a sposare la logica perversa ma ego-sintonica messa in piedi dal perpetratore, ma per poter agire sulla base delle dinamiche relazionali e intrapsichiche disfunzionali che si sono attivate nella relazione maltrattante (proprio come conseguenza della relazione maltrattante, e non come caratteristiche presenti ab origine in base a presunte patologie della vittima) per poter andare a recuperare e curare il Sé confuso, ferito, demolito della vittima, per ridare un senso a ciò che sembra troppo confuso e incomprensibile, per ristabilire una percezione di una realtà in cui la vittima possa recuperare progressivamente la sua agentività, la sua possibilità di agire in prima persona in modo consapevole e, con il supporto necessario, uscire dalla violenza.

BIBLIOGRAFIA

  • Bonura M.L., "Che genere di violenza. Conoscere e affrontare la violenza contro le donne", Centro Studi Erickson, Trento, 2016
  • De Zulueta F. (2006), “Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell’aggressività”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009
  • Filippini S. “Relazioni perverse. La violenza psicologica nella coppia”, FrancoAngeli, Milano, 2005
  • Fonagy P., Target M., “Attaccamento e funzione riflessiva”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001
  • Schimmenti V., Craparo G., “Violenza sulle donne. Aspetti psicologici, psicopatologici e sociali”, ed FrancoAngeli, Milano, 2014.