Di bambini, di casa, e di guerra...

La guerra entra nel mondo reale e nel mondo psichico dei bambini in modo imponente e terrificante.


Lo sfollamento dalle zone di guerra verso luoghi sicuri, necessario in questi giorni per la sopravvivenza fisica dei bambini ucraini, può mettere a dura prova la loro sopravvivenza psichica. Di quest’ultima, ferita anche dai diversi traumi che la guerra porta con sé, sarà necessario occuparsi adesso e nei prossimi anni.

 

Abbandonare la propria casa è per il bambino qualcosa di più del lasciare quattro mura: in essa si trovano anche i significanti che accompagnano la strutturazione della sua esperienza psichica. Nella casa così definita vi è quindi il contenitore non solo fisico ma anche mentale che consente ai contenuti psichici (emozioni, percezioni, sensorialità) di conquistare una qualità mentale, di diventare rappresentazione e pensiero, di concorrere alla strutturazione di un’esperienza psichica, di un apparato per pensare i pensieri, di una mente.  

 

Gli scritti di Winnicott ritornano particolarmente attuali in questi giorni, nella definizione che egli dà alla casa:

“per ‘casa’, lo sapete, non intendo una graziosa abitazione con tutte le comodità moderne. Per casa intendo quell’una o due stanze che nella mente del bambino si sono associate con la madre e il padre, con gli altri bambini e con il gatto. E dove c’è uno scaffale o un armadio in cui si ripongono i giocattoli”.

 

Può essere interessante approfondire con un brano tratto da Winnicott D.W. “Il bambino deprivato”, Ed. Raffaello Cortina, 1986:

“Ci sono strane persone – degli ottimisti, suppongo – che hanno magnificato lo sfollamento come un’occasione di una nuova vita offerta ai poveri bambini delle città. Questi tali non erano in grado di riconoscere nello sfollamento una grande tragedia, perciò lo considerarono come una delle benedizioni nascoste della guerra. Ma non può mai costituire un bene il togliere i bambini dalle loro case che sono di solito soddisfacenti. E per “casa”, lo sapete, non intendo una graziosa abitazione con tutte le comodità moderne. Per casa intendo quell’una o due stanze che nella mente del bambino si sono associate con la madre e il padre, con gli altri bambini e con il gatto. E dove c’è uno scaffale o un armadio in cui si ripongono i giocattoli. […]

Ribadisco che, quando un bambino è a casa, ciò gli permette di sperimentare tutta la gamma dei suoi sentimenti e ciò costituisce sempre e solo un bene. Invece mi preoccupano le idee che vengono in mente al bambino a proposito della sua casa quando ne sta lontano per molto tempo. Quando è a casa egli sa in realtà com’è la sua casa e per questa ragione è libero di far finta che ci sia qualcosa che desideri ai fini del suo gioco. E giocare non è soltanto un piacere: è essenziale al suo benessere. Quando è lontano, d’altra parte, non ha la possibilità di sapere di momento in momento com’è effettivamente la sua casa, quindi i suoi pensieri perdono il contatto con la realtà e ciò può spaventarlo.

Un conto è, per un bambino che è a casa, combattere battaglie attorno ai muri della stessa e poi all’una rientrare per il pranzo, un altro conto è essere sfollato e privo di contatti e trovarsi a fantasticare un assassino in cucina. Una cosa è starsene a testa in giù sulla strada per il piacere di vedere la propria abitazione capovolta prima di rimettersi in piedi, e tutt’altra è trovarsi a duecento miglia e essere convinti che la propria casa stia bruciando o crollando”.