OLTRE L’ETICHETTA. Il contesto relazionale, i sintomi, le diagnosi


La valutazione ed il successivo intervento di psicoterapia con i bambini non possono prescindere da una valutazione del contesto quotidiano di relazione all’interno del quale la psiche del bambino si struttura e all’interno del quale i sintomi si manifestano.

 

Il contesto relazionale in cui il bambino cresce, e in particolare l'insieme delle relazioni che si strutturano nella sua famiglia, sono infatti degli organizzatori fondamentali della personalità del bambino, e come tali devono essere presi in considerazione nel percorso di valutazione del bambino.

There is no such thing as an infant”, affermava infatti Donald W. Winnicott, intendendo con ciò sostenere l’impossibilità di conoscere il bambino in sé: il bambino all’inizio non esiste come unità in sé, ma come elemento in relazione con l’altro, con la madre. Non esiste quindi inizialmente un bambino autonomo, ma un bambino che partecipa della unità costituita dalla diade mamma-bambino, ed è proprio attraverso gli scambi con la madre-ambiente che egli potrà progressivamente arrivare alla costruzione del Sé.

Man mano che il bambino cresce gli elementi di autonomia naturalmente aumentano, ma le relazioni con le figure affettive e di accudimento significative (mamma, papà, nonni, ecc.) rimangono sempre elementi fondamentali del panorama psichico, relazionale e di sviluppo del bambino, nonché elementi costitutivi del suo mondo interno.

Le relazioni interiorizzate rimangono infatti presenti non solo nel mondo interno del bambino, ma anche nell’età adulta, nel mondo interno dell’adulto, determinandone in buona parte l’organizzazione della personalità, le modalità di relazione e interazione, ed eventuali disturbi anche in età adulta.

 

Quando un bambino arriva nello studio di psicoterapia è quindi necessario innanzitutto offrire ascolto a quanto egli manifesta (utilizzando gli strumenti più adatti alla sua età, prevalentemente gioco e disegno in seduta, ma anche colloqui), ma senza dimenticare il contesto relazionale all’interno del quale egli manifesta il sintomo.

È necessario quindi poter fare un passo al di là del semplice sintomo, e non identificare il bambino con il semplice sintomo o con la diagnosi.

Per quanto possa essere rassicurante per i genitori o per gli insegnanti (e a volte anche per il clinico) poter finalmente dare un nome al disagio, e poter quindi definire un bambino come affetto da ADHD (Disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività) o da fobia, o da depressione, il semplice mettere una “etichetta” o dare un nome al sintomo non risolve il disturbo. Molto spesso il sintomo altro non è che una reazione ad una situazione che può essere individuata all’interno delle relazioni in cui il bambino si trova inserito. E può pertanto essere di aiuto in questi casi proprio un intervento di tipo più esteso che, pur occupandosi in prevalenza del bambino, non si rivolga solo ed esclusivamente a lui, ma coinvolga anche il sistema delle relazioni familiari.

 

Il piccolo Marco (nome di fantasia) ad esempio era stato portato nel mio studio dalla mamma proprio a seguito di una precedente diagnosi di ADHD effettuata da una struttura sanitaria. La mamma era sinceramente e amorevolmente preoccupata per il bambino, il quale ultimamente in un momento di “iperattività” aveva distrutto degli oggetti in un negozio, creando non poco imbarazzo e tensione all’interno della famiglia.

La richiesta era fondamentalmente di costruire un intervento rivolto al bambino, con un desiderio di “rimetterlo a posto” quasi di tipo “ortopedico”, come si potrebbe chiedere di “rimettere a posto” un osso rotto. C’era infatti una forte delega agli altri, delega che aveva anche la funzione di proteggersi dalla necessità di mettersi in discussione o di interrogarsi sul proprio ruolo genitoriale. La preoccupazione per il bambino, per quanto sincera, non era sufficiente ad attivare una responsabilizzazione da parte della mamma. La diagnosi di ADHD diventava una rassicurante barriera al pensiero e alla responsabilità.

Oltre alla sincera e amorevole preoccupazione per il bambino e alla tendenza alla delega a tutte le risorse disponibili (sia presso la struttura sanitaria pubblica che presso il mio studio privato), nel corso dei colloqui erano emerse anche delle evidenti difficoltà legate alla particolare situazione familiare. La condizione economica e abitativa della famiglia e, soprattutto, l'insieme e le caratteristiche delle relazioni familiari, rendevano il mondo esterno (e di riflesso anche il mondo interno) di Marco estremamente confusivo, con ruoli familiari poco definiti e poco maturi, e confini personali e abitativi labili. La confusione si manifestava inoltre anche a livello comunicativo, non solo con il bambino ma anche tra adulti. Anche solo confermare o fissare un appuntamento sembrava un’impresa comunicativa impossibile, con ripetute chiamate mancate cui seguiva il mancare la seduta oppure il presentarsi alla seduta (in precedenza non confermata) come nulla fosse. E allo stesso modo la confusione comunicativa si manifestava tra genitori e bambino durante la seduta.

La valutazione del bambino, essendo ancora molto piccolo, si basava inizialmente su alcune sedute di osservazione-gioco. Il gioco in questo caso avrebbe consentito di valutare il livello di sviluppo del bambino; la capacità di usare il gioco simbolico; la rappresentazione di temi significativi nel gioco; la presenza, la qualità e le caratteristiche delle relazioni tra bambino e genitori; la qualità degli scambi comunicativi e affettivi tra genitori e bambino; la presenza di elementi di iperattività; la tenuta dei limiti e delle regole.

Nel corso della prima seduta di osservazione-gioco, in presenza di entrambi i genitori, avevo quindi potuto osservare un bambino curioso, intelligente, che smontava i giochi per osservarne le parti e l’insieme; un bambino che però era in grado di rispettare il limite e le regole, sia nel momento più “contenitivo” della seduta che in quello potenzialmente più “caotico” dei saluti nel corridoio mentre aspettava che mamma e papà si mettessero i giacconi prima di vestire anche lui, senza mostrare alcun accenno di iperattività.

Dal canto loro i genitori facevano del loro meglio per rispondere al bambino nel corso della seduta, ma spesso le loro risposte sembravano caratterizzate da una certa immaturità, poco contenitive, e guidate più da quello che poteva essere considerato astrattamente “giusto” (ad esempio ricostruire il gioco smontato), che da ciò che poteva rispondere alle esigenze del bambino (ad esempio capire come era fatto il gioco, che diventava mezzo di espressione di una curiosità e di una confusione in Marco che avevano bisogno di essere ascoltate e accolte, in quanto riflettevano in particolare anche la confusione relativa al trovarsi in un contesto nuovo di terapia).

Pertanto Marco, non sentendosi visto e riconosciuto nelle sue richieste dai genitori, metteva in atto in questi momenti delle risposte leggermente più "agitate" e richiedenti, senza tuttavia manifestare quelle caratteristiche di impulsività e irrefrenabilità che, basandosi sulla precedente diagnosi di ADHD, ci si sarebbe potuti aspettare. L'agitazione di Marco sembrava infatti avere, se vista all'interno della relazione e del contesto, soprattutto una chiara valenza comunicativa: era un modo per comunicare il proprio disagio nel non essere riconosciuto, ma anche un modo per “riaccendere” l’attenzione dei genitori distratti, che non potevano a quel punto che dare una risposta alla sua agitazione, ristabilendo una funzione contenitiva e di accudimento.

Partendo quindi dal considerare questa evidente presenza di aspetti relazionali coinvolti nel disagio portato da Marco, non poteva che nascere una riflessione sulla precedente diagnosi di ADHD con cui il bambino era arrivato, riflessione che avrebbe in seguito richiesto ulteriori approfondimenti ed eventualmente una presa in carico in grado di coinvolgere in modo più attivo anche la relazione con i genitori, i quali avevano delle buone risorse individuali sulle quali sembrava possibile lavorare per recuperare una relazione maggiormente contenitiva e in grado di recuperare una maggiore sintonizzazione affettiva e comunicativa.

Chiudersi dietro una diagnosi senza interrogarsi e intervenire sul contesto interpersonale non offre infatti una risposta adeguata, e può determinare nel bambino “un ingombro dell’anima e del cuore che resterà a lungo dentro di lui” (Cancrini, 2012). L'intervento non può che essere più complesso, e muoversi su più livelli: intrapsichico, interpersonale, relazionale.

 

Non posso pertanto che condividere le parole di Luigi Cancrini, espresse nel suo interessante libro “La cura delle infanzie infelici” (2012):

“Quello che dovrebbe essere considerato un diritto inalienabile del bambino che manifesta difficoltà psichiche, infatti, è l’ascolto terapeutico delle condizioni in cui tali difficoltà si sono manifestate. L’idea di porre diagnosi basandosi solo sul racconto o sull’osservazione dei sintomi è estremamente pericolosa proprio perché la gran parte dei sintomi del bambino altro non sono che reazioni comprensibili (e più che legittime) a situazioni riconoscibili solo da parte di chi osserva il loro contesto interpersonale. “A casa e a scuola dovete guardare”, dicevano i pionieri della terapia familiare della Philadelphia Child Guidance Clinic per capire “a chi sta parlando e con chi comunica” il comportamento sintomatico del bambino. Rispondere con una diagnosi sbrigativa di “depressione” o di “ADHD” può far piacere (o dare sollievo) ai genitori, che non sono costretti a mettere in discussione se stessi, il loro rapporto o il clima in cui si vive nella loro casa, ma chiude, senza neppure che ci se ne renda conto, la bocca del bambino. Quella che viene meno, in queste condizioni, è la possibilità di intervenire sui contesti interpersonali e quello che si determina, dietro il silenzio spaventato del bambino, è un ingombro dell’anima e del cuore che resterà a lungo dentro di lui come un ostacolo importante per quei processi di integrazione delle rappresentazioni buone e cattive del Sé e dell’oggetto che è la premessa naturale di un abbassamento della soglia di attivazione del funzionamento borderline della mente”. (Cancrini, “La cura delle infanzie infelici”, 2012, pag. 129)