QUATTRO GIOCHI CON IL PASSATO

 

Einstein affermava: “Non possiamo risolvere i nostri problemi con lo stesso pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati”, e noi possiamo anche trovarci d’accordo con la sua affermazione. Eppure siamo tutti sempre fortemente ancorati al nostro passato.

In parte è una cosa sana e naturale: ci dà le radici, fonda e definisce il nostro modo attuale di essere, contribuisce a rafforzare la nostra identità e a mantenere una coerenza interna.

Tuttavia a volte quando il passato diventa vincolante e limita la nostra possibilità di evolvere, dovremmo fermarci e capire cosa sta succedendo, e cercare il cambiamento necessario per andare oltre.

Che si tratti di una relazione di coppia che finisce e che ci lascia ancora sospesi nel passato, o che si tratti di modi disfunzionali di affrontare la quotidianità che, per quanto sbagliati, ci rassicurano perché li conosciamo già bene, sono molte le situazioni in cui potremmo trovarci a “giocare” con il passato, senza riuscire a fare i necessari passi verso il futuro, almeno finché non sviluppiamo una maggiore consapevolezza e non iniziamo una elaborazione un po’ più profonda di questi.

GIOCHI CON IL PASSATO

Ci sono, secondo Watzlawick (1983), quattro “giochi con il passato” che rischiano di intrappolarci:


1) L’esaltazione del passato

Il passato diventa nei nostri ricordi quel mondo mitico in cui tutto era meraviglioso, e non ricordiamo più tutti gli aspetti fastidiosi e a volte francamente dolorosi di quanto abbiamo vissuto.

E così può capitare che di una relazione di coppia ormai finita ricordiamo solo i momenti stupendi trascorsi insieme, tralasciando tutte le incomprensioni che hanno contribuito alla rottura. Oppure può capitare che del lavoro che abbiamo lasciato ricordiamo solo gli aspetti gratificanti, tralasciando il nostro non sentirci realizzati e supportati, o le ingiustizie subite. O ancora può capitare che della nostra adolescenza ricordiamo solo gli aspetti positivi di crescita e autonomia e non la quotidiana e stressante lotta per l’autoaffermazione e il raggiungimento di una identità stabile. Attuiamo una continua scissione tra aspetti buoni e aspetti cattivi che non ci consente di riconoscere la situazione nella sua interezza.

E non è finita qui: il “gioco” dell’esaltazione del passato a volte si arricchisce di varianti ancora più complesse e subdole. A volte ad esempio siamo così bravi in questo gioco che, una volta abbandonata la situazione che ci ha fatto soffrire, ci mettiamo nella stessa condizione di prima: cerchiamo un altro partner che ci fa soffrire esattamente allo stesso modo del nostro ex, un altro luogo di lavoro in cui veniamo trattati esattamente allo stesso modo, ecc.

Rimaniamo così intrappolati in una coazione a ripetere che, se non interviene una elaborazione più profonda e consapevole, rischia di bloccarci e di non portarci verso il nostro futuro e verso il cambiamento. È necessario quindi portare una nuova luce sul passato, favorire un’elaborazione più profonda di quanto accaduto, per riuscire ad uscire da questa modalità di relazione con il proprio passato.

 

2) La moglie di Lot

In questo caso lo spunto arriva da un episodio biblico: l’angelo disse a Lot e alla sua famiglia di fuggire senza voltarsi indietro, ma la moglie disobbedì, si voltò, e si trasformò così in una statua di sale.

In questo gioco con il passato siamo quindi alle prese con un presente che non possiamo vivere, un futuro che ci potrebbe portare anche delle novità interessanti, addirittura salvifiche, ma siamo così ancorati al passato da non poter affrontare il percorso verso il nostro futuro. Ci voltiamo indietro e rimaniamo ancorati lì, immobili come statue di sale, fermi a quello che è stato.

Pensare di rivolgersi a quanto già conosciamo è rassicurante, ritornare compulsivamente su percorsi e panorami già noti placa la nostra ansia, ma ci impedisce di muoverci verso il futuro e verso le novità che in esso incontreremmo.

 

3) Il fatale bicchiere di birra

Watzlawick ci ricorda un film di W.C. Fields in cui viene narrato il progressivo decadimento di un giovane uomo quando, al primo fatale bicchiere di birra (per il quale subisce anche il monito dal barista) seguono tutti i bicchieri successivi.

Il gioco con il passato che in questo caso si attiva fa riferimento al fatto che la prima azione (il primo bicchiere di birra in questo caso) non solo giustifica quanto accade dopo, ma lo rende ineluttabile. Una volta iniziato questo percorso, non si può tornare indietro: lo si doveva sapere allora, adesso è troppo tardi, e si diventa semplici vittime del proprio primo errore.

Inoltre, in una versione più complessa di questo gioco con il passato, si può diventare vittime, di qualche imprecisata “forza maggiore”, o di tutto quanto accaduto nel proprio passato, di quanto genitori, insegnanti, società, cultura, amici, ci hanno inflitto.

Accade così che un primo errore ci trascini verso il fondo, mentre la nostra responsabilità viene trasformata in responsabilità attribuita all’esterno, ad un evento che viene percepito come fuori dal nostro controllo: il nostro primo errore, oppure l’errore o il trauma a cui il mondo esterno ci ha sottoposto.

E se inavvertitamente ci arriva nel corso della vita qualche elemento positivo, qualche gratificazione, qualche successo, può accadere che se stiamo ancora giocando questo gioco non riusciamo a goderne, ma rispondiamo qualcosa che risuona come “ora non lo voglio più, adesso è troppo tardi”.

O ancora può capitare di arrivare al paradosso per cui si rende il passato responsabile anche del bene, un bene che però va a tutto vantaggio e supporto della propria infelicità, come quando – ci ricorda Watzlawick – un lavoratore del porto di Venezia esclamò, in seguito all’abbandono degli Asburgo che portarono ricchezza e progresso in quelle terre, “Maledetti gli Austriaci che ci hanno insegnato a mangiare tre volte al giorno!”.

4) La chiave perduta

L’ultimo gioco con il passato prende spunto da una barzelletta.

Un ubriaco sta cercando qualcosa sotto ad un lampione. Arriva un poliziotto che gli chiede cosa stia cercando. “La mia chiave”, risponde l’ubriaco. Il poliziotto si unisce alle ricerche, e insieme controllano tutta l’area sotto il lampione. Non trovando ancora nulla, il poliziotto chiede: “Ma lei è proprio sicuro di averla persa qui?”, e l’ubriaco risponde “No, non l’ho persa qui, l’ho persa là dietro. Solo che là è troppo buio…”.

È solo una barzelletta, ma racchiude la spiegazione di un altro gioco con il passato che si fonda su una ostinata adesione a meccanismi e soluzioni che in un imprecisato passato si sono rivelati efficaci.

Perché, se è vero che avere dei meccanismi e delle soluzioni che possiamo adottare in diversi contesti e situazioni ci rende la vita più semplice e prevedibile, è anche vero che le situazioni mutano col tempo, e quello che allora era risultato efficace e risolutivo, oggi potrebbe non esserlo più.

Chi partecipa a questo tipo di gioco con il passato rimane intrappolato, affidandosi solo a soluzioni che un tempo funzionavano con la conseguenza di non ottenere un risultato soddisfacente, ma anche di continuare nevroticamente ad impegnarsi utilizzando sempre le stesse soluzioni, con la percezione inoltre di aver fallito perché non si è impegnato abbastanza.

 

I quattro giochi con il passato descritti da Watzlawick non sono così assurdi e infrequenti come potrebbe a prima vista apparire. Certo è rassicurante rimanere nel passato, cercare nella luce (del passato) piuttosto che aprirsi a nuove soluzioni nel buio (del presente), ma se vogliamo entrare metaforicamente nella nostra “casa” dobbiamo trovare la “chiave”, scoprire soluzioni più adattive di quelle già note (e per questo rassicuranti) ma poco funzionali cui ci siamo affidati finora. Dobbiamo capire invece le motivazioni alla base della nostra permanenza in queste modalità disfunzionali e favorire una nuova consapevolezza e una nuova elaborazione che ci consenta di uscire dall'impasse, e di cambiare la nostra vita.

 “La più grande scoperta della mia generazione è che gli esseri umani possono cambiare la loro vita cambiando le abitudini mentali” (William James)

BIBLIOGRAFIA
  • Watzlawick P. (1983), "Istruzioni per rendersi infelici", Feltrinelli, Milano, 2010.