NELLA "VALIGETTA" DELLO PSICOLOGO...

 “Spesso le persone che si rivolgono a noi vivono senza tener conto del proprio mondo interno e del ruolo che gioca l’inconscio. Hanno bisogno che l’analista socchiuda la porta che si affaccia su questo mondo di cui non sospettano la presenza, per scoprirla in se stessi. È nel corso dei colloqui preliminari che si può mostrare questa porta al paziente, facendogli sentire ciò che accade nella coppia analitica a livello della relazione transferale nascente, in modo suggestivo e con un linguaggio che lo tocchi. Solamente allora il paziente sarà libero di fare una scelta”. 

(Quinodoz)

Se proviamo a curiosare in una metaforica “valigetta” dello psicologo, possiamo individuare alcuni tra gli “strumenti” principali o tra quelli più noti all'immaginario collettivo; questi ci possono aiutare ad immaginare a grandi linee cosa si fa quando si va dallo psicologo. Tra gli strumenti più conosciuti, anche nell'immaginario comune, vedremo schematicamente solo alcuni: il colloquio, i test psicologici, l'uso dei sogni, del disegno e delle fiabe in terapia. Altri elementi verranno invece approfonditi in altre sezioni del sito.  

a) Il colloquio psicologico


“Se lo psicoterapeuta deve poter custodire il silenzio, è perché attribuisce un valore assoluto alla parola del paziente.”   

(J. Lacan)

Il colloquio può essere considerato lo strumento principe utilizzato nella psicologia e nella psicoterapia. Che si tratti di consulenza, di sostengo o di psicoterapia, al di là delle scelte teoriche, degli orientamenti, delle pratiche cliniche del singolo psicologo, è esperienza comune che dallo psicologo si vada “per parlare”.

Ma che cosa rende diverso il colloquio con lo psicologo da quello con un amico o conoscente? Potremmo, per semplificare, individuare tre grandi classi di differenze:


1.  La prima differenza la scorgiamo nel livello di indagine del colloquio. 

O meglio: nel livello a cui tale colloquio viene “ascoltato”. 

La competenza dello psicologo, la sua conoscenza delle dinamiche psichiche, della storia clinica di chi a lui si rivolge, l’attenzione alle dinamiche interpersonali e alle dinamiche di transfert e di controtransfert che si attivano, gli consentono di non fermarsi al solo racconto narrato dal paziente, al solo testo manifesto, ma di andare oltre, avvicinandosi anche elementi non coscienti, non consapevoli, in modo da lavorare insieme al paziente sul testo latente, cioè su quanto quel racconto rappresenta e significa ad altri livelli, e da lì partire per dare il via ad una più ampia elaborazione e per aumentare progressivamente l’area del pensabile.


2. Lo psicologo deve inoltre prestare attenzione ai diversi canali comunicativi attraverso i quali passa il dialogo terapeutico: la comunicazione non fluisce solo attraverso le parole (comunicazione verbale), ma anche attraverso il canale non verbale, quindi anche attraverso i silenzi, il tono della voce, la postura, la prossemica, e così via, e a volte anche attraverso degli agiti. 

Come sosteneva Watzlawick: “è impossibile non comunicare”. 

La specifica competenza dello psicologo nel cogliere tutti i segnali comunicativi consente di aiutare il paziente anche ad integrare aspetti della propria comunicazione e dei propri vissuti di cui poteva non essere pienamente consapevole, aspetti che, pur non espressi a parole, vengono espressi attraverso i gesti o con altre modalità.


3. Infine il colloquio psicologico si distingue per il fatto di avere una chiara finalità: esso ha uno specifico obiettivo, che deve essere definito. L’obiettivo individuato caratterizzerà il tipo di intervento che verrà messo in atto e determinerà durata, profondità, e conduzione del o dei colloqui. 

Ci potrà quindi essere il colloquio anamnestico, che ha l’obiettivo di raccogliere i dati, la storia clinica, personale e famigliare del paziente, oppure il colloquio di sostegno, nel caso si stia attuando un psicoterapia di sostegno; oppure il colloquio terapeutico nel caso questo sia inserito invece all’interno di un più profondo percorso di psicoterapia; oppure ancora colloqui caratterizzati da offerta di informazioni e chiarificazioni nella consulenza e nell’orientamento.


Il colloquio, pur rappresentando un elemento comune nella pratica psicologica, si differenzia in modo significativo in base all’utilizzo che il clinico ne fa, alla teoria che guida il clinico, a come egli lo inserisce all’interno di un determinato tipo di percorso (terapeutico, di consulenza, di sostegno, ecc.), e in base al piano di intervento che orienta il percorso stesso.


b) Test psicologici


"I test psicologici sono porte della conoscenza attraverso cui ci muoviamo fuori dalla scatola e dentro la luce" 

(H. Rorschach)

I test psicologici sono degli strumenti utili ad approfondire la conoscenza di alcune aree di funzionamento della persona che si rivolge allo psicologo. Vanno sempre considerati come parte di un percorso di intervento più complesso, di cui sono utili elementi integrativi. 

I test che vengono utilizzati in ambito clinico sono test standardizzati, che hanno quindi alla base una vasta ricerca cui è necessario fare riferimento per poter fornire risultati affidabili. 

Si possono distinguere due classi principali di test:


1. Test proiettivi: si prestano a raccogliere le proiezioni del mondo interno del paziente. Sono molto utili ad indagare la sfera emotiva, anche se possono fornire allo stesso tempo importanti indicazioni anche sul funzionamento cognitivo. Tra i più conosciuti ricordiamo il test di Rorschach, il Thematic Apperception Test (o TAT), il Children Apperception Test (o CAT), il test di Wartagg, Il Patte Noir, Blacky Pictures, ecc.


2. Test cognitivi: consentono, attraverso una serie di prove, di valutare lo sviluppo cognitivo del paziente, il livello di competenza o difficoltà in alcune aree particolari o in alcune abilità, ecc. Tra i più noti ricordiamo i “test di intelligenza” come il Wechsler Adult Intelligence Scale (o WAIS), il Wechsler Intelligence Scale for Children (o WISC), le matrici di Raven; oppure i test per la valutazione di abilità specifiche, come quelli utilizzati ad esempio nel caso di diagnosi di Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA).


Non sempre è necessario ricorrere ai test. Sarà lo psicologo o psicoterapeuta, in seguito a una valutazione clinica, a decidere se la loro applicazione può essere utile, evitando in ogni caso di sottoporre il cliente a valutazioni e prove non necessarie.

 


c) Il sogno


"Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni”. 

(W. Shakespeare)

L’interpretazione dei sogni”, testo scritto da Sigmund Freud ne 1899, è uno dei suoi più noti scritti, ed è anche uno dei capisaldi della tecnica psicoanalitica. Da allora è passato più di un secolo e, pur riconoscendo l'importanza fondativa di alcuni concetti espressi in questo testo, la tecnica si è arricchita di nuovi e più attuali elementi, e ciò ha condotto verso un interesse e un tipo di lavoro sul sogno diverso rispetto alle origini.

I sogni, che per Freud rappresentavano la “via régia verso l’inconscio”, continuano ad essere osservati, e sicuramente aprono una finestra sul mondo interno, sull’inconscio. Tuttavia con lo sviluppo della teoria, soprattutto in un'ottica relazionale e con il crescente interesse verso il "pensiero onirico della veglia" che si esprime nel campo terapeutico, gli elementi della seduta assumono un peso diverso e possono essere osservati essi stessi come un "sogno" in cui elementi ancora non "alfabetizzabili" del mondo psichico vengono "sognati" all'interno della seduta, nella relazione terapeutica.

Come spiega chiaramente T.H. Ogden: “Sognare è la forma più libera, più inclusiva e più profondamente penetrante di lavoro psicologico di cui sono capaci gli esseri umani. Nel concepire la funzione psicoanalitica della personalità in questo modo, Bion rivede radicalmente la comprensione di Freud del lavoro del sognare e del processo analitico. Per Freud lo scopo del sognare e della psicoanalisi è quello di rendere cosciente l’inconscio – cioè rendere derivati dell’esperienza inconscia disponibili al pensiero cosciente (processo secondario). In contrasto, per Bion, l’inconscio è la sede della funzione psicoanalitica della personalità e, conseguentemente, allo scopo di compiere il lavoro psicoanalitico, si deve rendere il cosciente inconscio, cioè rendere l’esperienza vissuta cosciente disponibile per il lavoro inconscio del sogno”. 


d) Il disegno in psicoterapia


“La creatività consiste nel mantenere nel corso della vita qualcosa che appartiene all’esperienza infantile: la capacità di creare e ricreare il mondo. È l’onnipotenza del pensiero propria dell’età infantile”.   

 [D. W. Winnicott)

Il disegno è uno strumento molto utilizzato nelle terapie con bambini o adolescenti. Può essere in alcuni casi utilizzato anche con gli adulti, anche se è meno frequente. Si potrebbe dire che per i bambini il disegno costituisce quello che per gli adulti è il colloquio: un mezzo di comunicazione, di espressione del Sé, di costruzione e indagine della relazione con l’altro. 

Attraverso il disegno i bambini, che magari non hanno ancora sviluppato una competenza linguistica soddisfacente, oppure che hanno messo in atto delle difese troppo rigide per proteggersi dall'angoscia, riescono a comunicare i propri vissuti, i propri pensieri, le proprie emozioni, il proprio mondo interno.

Sono numerosi gli aspetti del disegno che possono dare informazioni aggiuntive allo psicologo o psicoterapeuta: l’uso del colore, il tipo di tratto, la disposizione spaziale degli elementi sul foglio, sono tutti aspetti che, insieme agli elementi proiettivi, possono fornire informazioni importanti. Tuttavia questi, per poter essere significativi, devono essere contestualizzati e “letti” in base a molti altri elementi e informazioni cliniche, quali il livello evolutivo e grafico raggiunti del bambino, il momento della terapia in cui viene tracciato il disegno, il contesto relazionale e familiare, il tipo di disturbo presentato dal bambino, gli aspetti e i temi sui quali si sta lavorando in quel momento in terapia, le caratteristiche del campo bipersonale in quel momento della seduta, e così via. 

Ogni disegno infatti può dare indicazioni utili solo se visto in un'ottica terapeutica o di valutazione clinica e inserito quindi in una prospettiva più ampia, in relazione anche con tutti gli altri elementi presenti nel campo terapeutico, mentre l'interpretazione di un singolo disegno al di fuori di un contesto chiaro di riferimento non può offrire elementi informativi utili.


e) La fiaba in psicoterapia


"Le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono. Perché i bambini lo sanno già. Le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti". (G.K. Chesterton)

Le fiabe da sempre raccontano un mondo lontano, presente in un altrove collocato in uno spazio e in un tempo che non appartengono alla nostra quotidianità (come nel classico incipit: “C’era una volta in un paese molto molto lontano...”), ma che attraverso i personaggi e gli eventi narrati possono offrire uno spazio di rappresentazione al mondo interno di chi le racconta o le ascolta. 

In psicoterapia. La fiaba può quindi essere utilizzata, grazie alle narrazioni e ai personaggi che porta nel campo, come strumento d’indagine del mondo interno, delle emozioni, dei vissuti, dei conflitti, dei cambiamenti, delle relazioni.

Una caratteristica importante della fiaba è la sua insaturità: ognuno può “completarla” o “leggerla” o "narrarla" in base a significati e personaggi che fanno riferimento ad aspetti del proprio mondo interno, del proprio mondo relazionale, o relativi alla particolare fase evolutiva che sta attraversando, o alle particolari emozioni, sensazioni, conflitti che sta affrontando.

Attraverso i ritmi della fiaba, i passaggi, i cambiamenti delle situazioni e dei personaggi, il bambino (ma anche in alcuni casi l'adulto) può prima di tutto riconoscere e osservare, e successivamente elaborare varie problematiche, quali ad esempio i problemi connessi alla crescita o al cambiamento. Spesso infatti nelle fiabe vengono espresse tematiche legate al bisogno di essere amati o alla paura di essere abbandonati, alla paura della separazione o della morte, alla paura di superare le “prove”, simili alle tappe evolutive che ogni bambino deve riuscire ad affrontare. In questo modo la fiaba, utilizzata in senso terapeutico, consente di indagare ed elaborare le confuse paure e angosce del bambino, di rappresentarle ed elaborarle offrendo loro un senso, una trama, un racconto, e favorendo anche la sensazione di condivisibilità e di superabilità del problema, il quale infine può dirigersi verso una soluzione positiva.

 

...e alti strumenti ancora...